Io capitano, una storia tipicamente africana

Quando si parla di emigrazione, soprattutto proveniente dal continente africano, è sempre semplice farsi coinvolgere da facili sentimentalismi oppure da luoghi comuni diffusi su social o in base al sentito dire. Ma quanto c’è di reale? Cosa significa realmente migrare in Europa? 

Prova a dare una risposta il film di Matteo Garrone, Io Capitano, candidato agli Oscar come miglior film straniero e premiato a Venezia con il Leone d’argento per la miglior regia.

La storia racconta il viaggio di una coppia di cugini adolescenti provenienti dal Senegal che, inseguendo i propri sogni musicali, partono alla volta dell’Europa, venendo travolti dal più classico dei viaggi della speranza. Rapine, torture, centri di detenzione, tentativi di estorsione ai danni di disperati alla ricerca di un modo migliore di vivere, spesso dipinto da social e immagini mainstream come un paradiso terrestre, ma difficile da raggiungere e ad un prezzo spesso troppo caro. 

Uno dei principali argomenti trattati dal film è l’arrivo in Libia, con il trasferimento di uno dei due adolescenti in un centro di detenzione, luogo nel quale avvengono soprusi e torture nel tentativo di estorcere denaro alle famiglie con la minaccia di rivalersi su figli, mogli, nipoti, tenuti in condizioni facilmente immaginabili ma difficilmente descrivibili. In un rapporto di Medici senza Frontiere del 6 dicembre 2023 si denunciano presso il centro di Ain Zara (Tripoli) pratiche di lavoro forzato, estorsione e altre violazioni dei diritti umani, inclusa la morte violenta o a causa di mancanza di adeguate cure mediche.

Anche nel centro di Abu Salim, destinato a donne e bambini, i racconti sono legati a pratiche di percosse e abusi, oltre che alla mancanza di beni di prima necessità, spesso confiscati a seguito di regolare distribuzione.

Tutte queste attività e pratiche sono gestite da organizzazioni malavitose o da un impianto statale spesso paragonabile alle stesse mafie e, purtroppo, alimentato anche da fondi economici provenienti dall’Europa, la cui finalità ultima e destinazione spesso rimangono ignote o legate soprattutto all’obiettivo di limitare gli sbarchi. Ad aggravare la situazione anche il rifiuto della Libia di sottoscrivere la convenzione di Ginevra sui rifugiati, riconoscendo una forma di protezione solo a sette nazionalità (siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, etiopi di etnia oromo e sudanesi provenienti dal Darfur).

Se uniamo quanto espresso dal film di Garrone, quanto descritto nel report di MSF, la domanda è: perché mettersi in viaggio? E’ possibile sognare una vita migliore pur rimanendo in Africa, senza gettarsi a capofitto nelle mani di malavitosi che si nutrono della disperazione delle persone, che umiliano il concetto stesso di vita? 

I Progetti di Needle vanno in questa direzione, muovendosi su tre direttrici principali: Sanità, Educazione e Comunità.

Il progetto che vi vorremmo raccontare in questa prima edizione della newsletter Needle segue la prima direttrice, la Sanità, ed è legata a doppio filo all’evento organizzato grazie al sostegno del Lions Club di Candia e alla collaborazione con la Proloco e il Comune di Barone Canavese il 18 maggio.

L’evento si è sviluppato durante il pomeriggio e ha permesso di conoscersi trascorrendo insieme piacevoli ore giocando a scacchi e correndo attraverso gli splendidi paesaggi della collina di Barone, dove l’importante non era vincere ma divertirsi e apprezzare le bellezze del territorio. 

Ha chiuso la giornata la cena proposta dalla Pro Loco di Barone, momento in cui l’ospitalità si è sposata alla perfezione con la cucina, permettendo di offrire una splendida cornice conviviale al racconto del progetto che, grazie alle donazioni, Needle ha avuto l’opportunità di presentare e realizzare. 

Come anticipato nelle righe precedenti, la direttrice principale è stata la Sanità, e il progetto si è concentrato sulla gestione del picco malarico da un punto di vista del supporto medico e delle analisi che possono permettere di gestire sia la prevenzione che le complicanze che possono derivare dalle varie malattie, aggravate da fattori di rischio quali malnutrizione o patologie pregresse. Per farsi un’idea di quanto siano necessari interventi di questa tipologia soprattutto in particolari momenti dell’anno o a fronte di determinati eventi, basti pensare a quanto cambiano i numeri dei pazienti da gestire: passiamo da una media di 300 persone al giorno a picchi che possono arrivare anche a 600 pazienti. Il tutto gestito da tre laboratoristi e due clinical officer.

Com’è facile intuire i numeri diventano ingestibili proprio nel momento del massimo bisogno, soprattutto se pensiamo al ruolo che le figure professionali del laboratorista e del clinical officer rappresentano durante le fasi di diagnosi e cura. In particolare il laboratorista si occupa di analizzare i vetrini utilizzati per diagnosticare la malaria, osservando il sangue e, come possiamo immaginare, è in grado di gestire solo un numero ridotto di analisi di questa tipologia sia da un punto di vista delle tempistiche che di possibilità di gestire fisicamente l’esame stesso (lo sforzo sugli occhi è tale per cui sarebbe impensabile mantenere la stessa efficienza per un numero troppo elevato di ore e, quindi, di analisi). Allo stesso modo il clinical officer si inserisce in questo contesto offrendo i propri servizi in fase di prima diagnosi e prescivendo alcune terapie.

In questo contesto si inserisce il progetto Needle che, grazie alle donazioni raccolte, è stato in grado di pagare lo stipendio per sei mesi presso l’health center di Wau (Sud Sudan) di un laboratorista e di un clinical officer aggiuntivi, proprio per gestire il momento critico del picco malarico.

Grazie a voi e a tutti quelli che hanno sostenuto il progetto è stato possibile raggiungere questo primo, ambizioso traguardo!

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